Napoli San Gennaro – vita, miracoli, martirio e morte

Gli storici sono concordi nell’affermare che Ianuarius fosse il vero nome di San Gennaro e che la sua discendenza proveniente dalla famiglia gentilizia romana Gens Januaria, sacra al dio bifronte Janus (Giano),  da Roma si fosse trasferita nella Campania. Dunque, Gennaro, che dai napoletani viene chiamato Ianuario, non era il suo nome, ma il cognome. C’è chi, però, afferma che, molto probabilmente, il suo nome fosse Procolus  (Procolo) e chi Publius Fabius Ianuarius (Publio Fausto Gennaro); inoltre, c’è chi sostiene che fosse figlio unico e chi dice che avesse anche una sorella di nome Agata.

Si è concordi anche che Gennaro sia nato nell’anno 272, in un giorno di sabato del mese di aprile; ma nulla si conosce sul luogo di nascita: molte sono tradizioni e molte anche contraddizioni. Infatti, c’è chi afferma che sia nato a Benevento, che lo vedrà poi vescovo, e dove il popolo vuole che dei resti di una casa romana, ancora oggi visibili nella strada a lui intitolata, sia stata la casa che ha visto i suoi natali; non poteva mancare Napoli, che da sempre, vanta di aver dato i natali a San Gennaro; infine, anche Caroniti, una frazione del Comune di Ioppolo, in provincia di Vibo Valenzia, se ne attribuisce la paternità. Dunque, in assenza di atti o documenti che possano dare una prova attendibile, non è possibile dare un’inconfutabile verità storica.

Anche per le notizie sulla sua vita, in molti casi, bisogna affidarsi alle leggenda:

-)-)-) Una prima vuole che Gennaro sia nato povero, da genitori anch’essi poveri, ed ancora bambino gli morì la madre. Il padre, risposatosi, per la gran povertà in cui versava, mandò il figlio, sebbene piccolo, a lavorare come guardiano di maiali. In questo periodo, Gennaro conobbe un monaco asceta, un eremita del villaggio, e, frequentandolo, intuì subito che questi incontri avrebbe potuto aiutarlo anche nella sua istruzione.

Ma da qui in poi si perde ogni sua traccia, forse perché si allontanò anche dal quei luoghi. Notizie certe ricominciano dalla sua nomina a vescovo di Benevento, poi martire a Napoli con i suoi compagni più fidati, nel periodo delle persecuzioni di Diocleziano contro i cristiani,  e, alla fine, ancora martire a Pozzuoli e condannato a morte “ad bestias”, cioè ad essere sbranato dalle belve feroci nell’anfiteatro, così come si usava fare dai pagani negli spettacoli circensi gratuiti per un puro e semplice divertenti mento dei potenti di turno e del popolo. Si vuole, sempre secondo la leggenda, che a cambiar la condanna a morte, con la decapitazione, sia per San Gennaro che per i suoi compagni di ventura, era stata causata dall’assenza di un giudice, che doveva presenziare allo straziante spettacolo ed accertarne poi la morte; un’altra tradizione narra che San Gennaro e gli altri, nell’arena dell’anfiteatro, abbiano pregato Dio per la loro salvezza e che Dio li avesse salvati, ammansendo le belve, che si sdraiarono come agnellini ai loro piedi. Da qui la decisione di passare alla decapitazione, che avvenne, nell’anno 305, nel Foro del Vulcano, così come era chiamata la “Solfatara di Pozzuoli”.

-)-)-) Una seconda leggenda sulla sua nascita ci tramanda un Gennaro che sobbalza e si dimena nel grembo materno, ogni qual volta la madre entrava in chiesa a pregare e che sia poi venuto alla luce con le mani giunte e con le ginocchia piegate, in atto di preghiera.

Diversamente da quanto ci viene dalla prima, questa tradizione ci fa conoscere un Gennaro discendente da famiglia illustre ed agiata; il padre si chiamava Stefano e sua madre, appartenente ad una famiglia nota del napoletano, si chiamava Teonoria Amato.

A soli cinque anni cercava la solitudine per raccogliersi in preghiera, innanzi ad un’immagine della Madonna; cercava in casa sua denaro, pane e vestiti per farne dono ai poveri (imitando, in questo,  anche il padre Stefano, che era abbastanza pietoso e generoso); si narra che, un giorno, abbia incontrato un fanciullo misero e scalzo, che chiedeva l’elemosina – Gennaro, dopo averlo soccorso, lo abbracciò teneramente come un fratello. Ad un tratto, quel povero fanciullo apparve a Gennaro con le sembianze di Gesù – è palese il riferimento alle parole da lui pronunciate “chi accoglie un povero, accoglie me”.

-) Da quel giorno, pietà e misericordia si rafforzarono a dismisura nel suo animo; a sei anni, nel periodo più tremendo e nefasto per le persecuzioni contro i cristiani, Gennaro, sprezzante di tale pericolo e senza esitazioni, visitava nelle carceri i prigionieri cristiani, portando loro da mangiare, medicando le loro ferite e seppellendo i loro corpi. Andava alla ricerca di bambini della sua età, o poco più grandi, convincendoli a seguirlo nelle chiese e nelle catacombe, raccontando loro la vita e le glorie di Gesù, le virtù, il martirio e le morti atroci cui andavano incontro tanti cristiani per la loro incrollabile fede. Passava notti insonne per pregare e tanti giorni a digiunare; dormiva per terra appoggiando la testa su una pietra, tanto che tutto questo compromise gravemente il suo stato di  salute, nonostante la sua giovine età – una notte, si racconta, che soffrisse terribilmente e che, avendo tanto pregato per un aiuto divino, apparve la Madonna che gli posò la mano sulla testa guarendolo all’istante.

-) All’età di 15 anni trasformò la sua bella casa a Napoli (qualcuno afferma che si trovasse nell’attuale Via dell’Anticaglia) in un ospedale per gli infermi ed ammalati poveri, che lui stesso ricoverava cercandoli in giro per le strade e trasportandoli sulle spalle; la madre si prendeva cura delle donne e lui dei maschi.

Da queste umili azioni, sembrava già che un’aureola di santità gli aleggiasse sulla testa, tanto che incominciò a convertire i pagani, ad esorcizzare gli indemoniati, a scagliarsi contro gli eretici, a resuscitare i morti:  la recitazione di una energica  ed intensa preghiera  – dicono –  avrebbe resuscitato un ragazzo che era precitato dal terrazzo di casa.

Alla morte del padre venne in possesso di una cospicua eredità; assicurata una vita dignitosa per la madre Teonoria e per la sorella Agata, donò tutto il resto dei suoi averi ereditati a favore della Chiesa.

-) All’età di 30 anni, essendo già entrato in un ordine religioso, gli fu proposto di diventare vescovo di Benevento; dopo due rifiuti, da buon cristiano, ubbidì ed accettò la nomina a vescovo.

Avvenne che Sossio, cugino di Gennaro e Diacono di Miseno, un ardente e fedele apostolo cristiano, fu segnalato al proconsole romano Dracone Labiano come un personaggio pericoloso e fomentatore di disordini. Sossio, innanzi a Dracone, confermò  con intensità la sua fede in Cristo, non lo rinnegò, così come gli era stato ordinato, e maledì aspramente gli déi pagani ed i suoi seguaci. Subito fu tratto in arresto; in suo aiuto accorsero, manifestando con veemenza, Procolo, il diacono di Pozzuoli, ed i cristiani Eutichete ed Acuzio; ma anche loro furono imprigionati.

Gennaro andò a trovarli in carcere e tentò di farli liberare; ma fu a sua volta additato come un cristiano molto pericoloso. Fu allora chiamato dal tiranno Timoteo – un generale ateniese, acerrimo nemico dei cristiani – nominato da Diocleziano nuovo proconsole della Campania e successore di Dracone Labiano – per meglio chiarire i motivi che lo avevano indotto a perorare la liberazione dei cristiani già incarcerati, Gennaro, come suo cugino Sossio, non rinnegò Cristo, anzi proclamò la sua forte fede in Lui fino ad offendere il proconsole. Anche Gennaro fu immediatamente incarcerato e, da qui, cominciò il suo martirio e la sua santità (d’ora in poi la chiameremo San Gennaro).

-) -) Timoteo dispose che fosse bruciata legna per tre giorni in una fornace per poi gettarvi dentro San Gennaro; così fu fatto, ma i soldati impauriti riferirono a Timoteo che “il vescovo di Benevento, per nulla intimorito per quanto gli stava per accadere, camminava tranquillo dentro la fornace ardente cantando lodi al Cristo e senza che  le fiamme gli bruciassero un solo capello; all’uscita lo seguivano delle lingue di fuoco che si avventarono contro i suoi torturatori, bruciandoli” (ancora oggi la tradizione vuole che nei sotterranei della chiesa, dedicata a San Felice in Pincis, nel Comune di Cimitile – presso Nola – (NA), vi sia ancora la cava che sia servita per imprigionare San Gennaro ed i suoi compagni, nonché alcuni ruderi di mura, anneriti dal fuoco, che doveva servire come forno crematorio. Queste parti delle chiesa, come altre, sono in stato di abbandono e non più visitabili).

-) -) Mal riuscita questa tortura, Timoteo ne pensò di più strazianti;  ordinò, infatti, che a San Gennaro fosse scorticata la pelle, fossero tagliate a pezzetti le carni, fosse cosparso di liquido bollente. Ma ugualmente non ottenne il risultato sperato:  San Gennaro, nonostante queste torture così atroci,  ne uscì indenne senza emettere un lamento o un grido per le sofferenze subite, tranne nel momento in cui la madre Teonoria morì per il forte dolore, avendo saputo, in sogno, del grave martirio che veniva inflitto a suo figlio.

Intervennero in suo aiuto anche Festo e Desiderio da Benevento, i quali protestarono vivacemente per i martiri così atroci e per l’accanimento di Timoteo contro San Gennaro; per aver osato tanto, furono imprigionati a loro volta e sottoposti a scellerate atrocità, come quella in cui si videro, assieme al nostro Santo, seminudi, scalzi, stanchi ed affamati a trascinare, al posto dei cavalli,  il cocchio di Timoteo da Nola a Pozzuoli, dove tutti e tre furono direttamente condannati “ad bestias” (nel caso di specie: ad essere sbranato dagli orsi nell’anfiteatro di Pozzuoli) unitamente a Sossio, Procolo, Eutichete ed Acuzio già condannati in precedenza.

Ma di fronte al miracoloso spettacolo delle belve feroci ammansite  nell’arena dell’anfiteatro puteolano – evento che, così come ci viene tramandato, convinse migliaia di pagani a convertirsi al cristianesimo – Timoteo dispose che per i sette martiri la morte avvenisse per decollazione. Sulla strada che portava alla solfatara, luogo previsto per la pena di morte, un vecchio mendicante chiese a San Gennaro parti delle sue, visto che, di li a poco, a lui non sarebbero più servite; San Gennaro gli promise che, dopo la decapitazione, gli avrebbe donato l’orarium, cioè il fazzoletto con cui sarebbe stato bendato sul patibolo.

Nell’atto in cui veniva sferrato il colpo mortale, San Gennaro alzò la mano in segno di benedire la folla ed i suoi carnefici; assieme alla testa gli fu mozzato anche un dito della mano.

Era il mezzogiorno del mercoledì 19 settembre dell’anno 305.

Alla sua morte, San Gennaro aveva trentatre anni, come nostro Signore Gesù Cristo.

L’uno dopo l’altro caddero sotto i mortali colpi della mannaia tutti e sei suoi compagni di fede.

-) -) Sulla strada del ritorno, i soldati incontrarono nuovamente il vecchio mendicante al quale San Gennaro aveva promesso di donargli il fazzoletto dopo la sua esecuzione, e con scherni e sarcasmi  gli chiesero se il cristiano condannato a morte avesse mantenuto la sua promessa; il povero vecchio, piangendo commosso perché San Gennaro aveva mantenuto la promessa, mostrò l’orarium ai soldati, i quali riconobbero essere lo stesso che aveva bendato gli occhi del Santo Martire sul patibolo.

Molto turbati da questa visione, corsero da Timoteo per raccontargli l’avvenimento, ma non poterono dirgli nulla perché lo trovarono sul letto in preda ad uno stato di sofferenza atroce e di misteriosi dolori, contro cui i medici del tiranno non trovarono alcuna cura e forma di guarigione.

Timoteo morì il giorno dopo la decollazione dei sette martiri di un male oscuro ed incurabile.