Napoli notizie storiche sul 5° Itinerario
╠ Il Castel dell’Ovo è il secondo castello più antico della città di Napoli, dopo Castel Capuano; è costruito su due faraglioni, uniti tra di loro da un grande arco naturale.
Tra il V e VI secolo fu eretto un monastero, il cui possesso passò, di volta in volta, nelle mani di diversi ordini monacali, fino a diventare una rocca fortificata, ampliata ed ancor di più fortificata, nel XII secolo ad opera dei Normanni. Come spesso succede a Napoli, anche il nome di questo Castello proviene da un’antica e fantasiosa leggenda: si narra che il poeta latino Virgilio, ritenuto anche mago dai cittadini del medioevo, abbia nascosto, nei sotterranei del castello, un uovo magico, chiuso, in una gabbia, con pesanti serrature (oggi diremmo antiscasso), con lo scopo di difendere la città da guerre e sciagure: fin quando restava integro ed in piedi, restava integra anche l’intera fortezza; me se qualcosa o qualcuno avesse provocata la sua rottura, si sarebbe avuto non soltanto il crollo del Castello, ma la città di Napoli sarebbe stata colpita da immani catastrofi e sciagure.
Quando, per cause naturali, crollò il grande arco che univa i due scogli, su cui la struttura reggeva, il Castello subì dei gravi danni; ovviamente la sciagura fu attribuita alla rottura dell’uovo. La regina Giovanna I d’Angiò, dichiarò, con un giuramento pubblico e solenne, di aver provveduto personalmente alla sostituzione “dell’uovo rotto con un altro grazie al quale erano stati ripristinati i poteri prodigiosi come quelli del primo”, evitando, così, che tra il popolino si diffondesse il panico, al solo pensiero che nuove sciagure potessero colpire la città.
Oggi il Castello ospita cerimonie e convegni, anche dei più importanti. Alla visita non mancano mai le due torri, la “Normandia” e la “Maestra”, i resti della Chiesa di San Salvatore, la sala gotica con le sue volte, la loggia con i suoi archi a sesto acuto del 1300 e, nel 1800, tramutata in cappella, i resti di un’altra loggia del 1400, le celle dei monaci, il carcere denominato “della regina Giovanna” ed il grande terrazzo con i cannoni spagnoli, rivolti verso la città, dai cui spalti si gode un panorama mozzafiato della città.
╠ Il “Palazzo Cellammare o Cellamare” , costruito nei primi anni del 1500, per volontà della famiglia Carafa (Ved. Lett. b).
Nel 1647, il Palazzo fu preso di mira da Masaniello e dai suoi sostenitori, i quali misero a ferro e a fuoco l’intero “Quartiere di Chiaia”, con lunghe e sanguinose battaglie; dieci anni più tardi, nel 1657, la famiglia Carafa diede il proprio consenso ai monaci della vicina Chiesa Sant’Orsola di adibirlo a “lazzaretto” per dare ricovero ed assistenza ai cittadini colpiti dalla peste di quell’anno.
Quando morì l’ultimo proprietario dell’immobile, Nicola Carafa, senza lasciare altri eredi, il palazzo venne confiscato e venduto all’asta; fu acquistato nel 1695 da Antonio Giudice, Principe di Cellammare (da cui il nome). Fu, in seguito, anche la dimora del ricchissimo Michele Imperiale o Imperiali, Principe di Francavilla, il quale, non avendo, nel modo più assoluto, problemi economici, spesso e volentieri organizzava nel Palazzo grandi feste e ricevimenti, così come nel suo “casino di caccia” nella zona del Chiatamone.
Al suo interno è ammirevole la bella cappella, dedicata alla Vergine del Carmelo, realizzata su progetto dell’architetto Ferdinando Fuga; ammirevoli sono anche i saloni con affreschi realizzati da pittori locali.
In questo palazzo furono ospiti anche Giacomo Casanova (c’è lo ricorda nelle sue “Memorie”), Angelica Kauffmann, la famosa pittrice svizzera, il filosofo tedesco Johann Wolfgang Goethe, il poeta e scrittore Torquato Tasso di Sorrento.
╠ La Villa Pignatelli fu costruita dal 1826 al 1830 e fu commissionata da Sir Ferdinand Richard Acton, nobile baronetto inglese, ma nato, cresciuto e morto – a 36 anni – in Sicilia, figlio del primo ministro del re Ferdinando I (la madre era anche sua cugina perché figlia del fratello maggiore del padre) .
Dopo la sua morte, la villa venne acquistata da una famiglia di banchieri tedeschi, che, trascorsi pochi anni, la vendettero alla famiglia Pignatelli Cortes d’Aragona, proprietari fino al 1952, quando la principessa Rosina, ultima discendente ereditiera dei Pignatelli, la donò allo Stato Italiano, a condizioni che ne diventasse un museo dedicato alla memoria di suo marito il Principe Diego Aragona Pignatelli Cortes.
Ottimo affare artistico, culturale e storico per Napoli e l’Italia intera, perché la principessa Rosina,con la villa, donò tante opere d’arte, appartenute alla famiglia Pignatelli, in argento e bronzo, una ricca collezione di porcellane europee (manifatture di Maissen) del XVIII e XIX secolo, con rari oggetti anche antichi, come il “servizio da caffè” su cui sono raffigurati paesaggi marini, oggetti della Real Fabbrica di Porcellane in Capodimonte, come la famosa “Lavandaia”, il “Gentiluomo con marsina”, la “Scena galante con il cagnolino”, la gran quantità di “biscuit”, ed altri ammirevoli oggetti come le porcellane orientali del 1700 e del 1800 , smalti e cristalli, tutti esposti nei locali appositamente adibiti ed allestiti al piano terra del museo.
Nel 1998 si aggiunse la pinacoteca, voluta e curata dal Banco di Napoli.
╠ Il Museo delle Carrozze d’epoca (XIX e XX secolo) nasce nel 1952, contestualmente alla donazione dell’immobile da parte della principessa Rosina, e viene inaugurato nel 1975.
La prima collezione fu del marchese Mario d’Alessandro di Civitanova, un vero amante, intenditore ed esperto di carrozze e di cavalli, il quale donò al Museo 21 carrozze, 60 finimenti e 98 fruste. A questa donazione si aggiunsero delle altre di amici e parenti del marchese, come quella dell’architetto De Felice, che ha poi curato anche l’allestimento e l’esposizione museale.
Accanto alla collezione delle carrozze – francesi – inglesi – italiane e, persino, napoletane – carrozze da passeggio, per lunghi viaggi, eleganti o per lavoro, come quelle utilizzate per il trasporto della posta, con ruote piccole ed alte, a due o a quattro posti, e tutte riportanti, incisi su metallo, gli originali marchi di fabbrica – è esposta anche la ricca collezione di finimenti come morsi, passaredini, paraocchi, collari, briglie, fruste con manici d’avorio e d’argento.
╠ La “Villa Comunale” – l’ex Real Villa Comunale – ha un grande giardino con alberi di leccio, di pini, di palme, di eucalipti; ha un’espansione di oltre 1 km .
L’ideatore fu il viceré spagnolo Luigi Della Zerda, duca di Medinaceli – comune spagnolo – il quale in un vasto viale fece piantare una doppia fila di alberi, abbellendolo, poi, con 13 fontane e sculture; vari edifici sorsero, in seguito, tutt’intorno.
Le fontane che vanno ricordate sono:
-) La fontana della tazza di porfido o Fontana delle paparelle o Fontana delle quattro stagioni, per le quattro “erme allegoriche” (piccole colonne con alla sommità la testa di Ermete o di altro personaggio) che decorano lo spiazzale della fontana;
-) La Fontana del Ratto d’Europa, dello scultore napoletano Angelo Viva;
-) La Fontana del Ratto delle Sabine, realizzate dagli scultori Violani e Solari tra il 1834 ed il 1840;
-) Fontane del ‘600 e del 700 opere di noti scultori;
-) La Casina Pompeiana e la grande “Cassa Armonica”, del 1877, lavorazione di ghisa e vetro dell’architetto milanese Errico Alvino;
Ad abbellire ulteriormente la Villa vi sono, sparsi un po’ dovunque, molti busti in marmo di personaggi illustri napoletani, realizzati tra il 1800 ed il 1900.
-) Nella villa si trova anche la “Stazione zoologica” e ”l’acquario” della città di Napoli, voluti entrambi da Anthon Dorn, un naturalista tedesco, su progettazione dell’ingegnere inglese Alford Lloyd, molto esperto in materia.
-) La costruzione dell’ ”l’acquario” cominciò nella prima metà del 1800 e fu inaugurato, con l’apertura al pubblico, il 12 gennaio 1874. E’ il più antico acquario d’Europa ed ospita specie marine provenienti dal mar Tirreno, ma soprattutto dal Golfo di Napoli, che, nonostante il forte inquinamento, è una delle zone più ricche di forme marine viventi.
-) La Stazione zoologica, pur’essa voluta da Anthon Dorn, fu ed è un avanzato centro per la ricerca biomarina, con gli oltre 20.000 campioni di fauna e flora marina, per la maggior parte proveniente dal Golfo di Napoli.
Oggi è anche molto attivo per il ricovero delle tartarughe di mare ammalate o ferite o disadattate, le quali, dopo un periodo di cure e riabilitazioni, vengono liberate e rimesse nel loro ambiente naturale.
╠ Santa Maria del Parto è una piccola chiesa con una curiosa particolarità: è costruita su una parte alta di un edificio privato ed il suo ingresso è adiacente alla terrazza di questo edificio privato, su cui, però, la chiesa ha la “servitù di passaggio”; ci si accede anche da una scala, che si trova alle spalle di un ristorante di piazza Mergellina, che finisce proprio sulla terrazza, a circa 40 metri di distanza dalla facciata della chiesa.
Altra possibilità di accesso è l’utilizzo di un ascensore e /o di una scala coperta, il cui accesso, però, è da via Mergellina.
La chiesa inferiore, rispetto al livello dell’attuale edificio, fu scavata nella montagna di tufo e fu commissionata da Jacopo Sannazaro, poeta napoletano, che la fece costruire a proprie spese su un terreno di sua proprietà, avuto in dono, nel 1497, da re Federico d’Aragona.
Quando il Sannazzaro morì, il 24 aprile del 1530, la chiesa, per sua volontà, fu donata, con la restante dei suoi possedimenti e della sua cappella funeraria privata, in corso di costruzione, ai frati dei Servi di Santa Maria e fu dedicata alla Vergine del parto, perché il poeta napoletano, è in quella sua villa di Mergellina che scrisse il poema latino De partus Virginis <<il parto della Vergine>>.
Col passar degli anni, però, la chiesa fu trascurata e andò completamente in rovina ed alla fine fu trasformata in “ipogeo” , cioè in una chiesa sotterranea abbandonata.
Fu valorizzata, invece, la cappella funeraria privata del Sannazzaro, dedicata a San Nazario, che venne completata, ampliata e trasformata in chiesa (l’attuale edificio) dedicata a Santa Maria del parto, lo stesso nome della chiesa inferiore.
Nell’attuale chiesa, l’unico monumento di rilievo è la tomba del poeta, posta dietro l’altare, opera dello scultore Giovanni Angelo Montorsoli, un frate fiorentino dell’ordine dei Servi di Maria, accanto alla quale ci sono anche alcune tombe dei suoi familiari e la tomba del pittore Josep De Ribera, detto lo Spagnoletto.
Ammirevole è anche il dipinto di Leonardo da Pistoia (al secolo Leonardo Grazia o Grazzi), raffigurante “San Michele che sconfigge il demonio” o meglio noto conme il “Diavolo di Mergellina”.
╠ Il Palazzo Donn’Anna sorge su un precedente edificio chiamato “Villa Sirena” perché il luogo dover era stata costruita era detto “scoglio della sirena”. L’ultimo proprietario di “Villa Sirena” fu Anna Carafa, che sposò Ramiro Nuňez de Guzman, duca di Medina (Spagna), genero dell’allora viceré di Napoli. Nel 1642 i due diedero incarico all’architetto Cosimo Fanzago di abbattere la vecchia costruzione e di procedere alla costruzione dello splendido palazzo, arrivato fino a noi.
Anna Carafa morì di lì a poco ed i lavori, nonostante continuarono per volontà del marito, sono rimasti incompiuti: lussuosi appartamenti che affacciano sul mare, un piccolo teatro aperto verso il mare ed un accesso al palazzo direttamente dal mare; è costruito in pietra di tufo giallo e il suo basamento poggia direttamente sulla roccia dello scoglio sottostante.
Il Palazzo visse periodi di splendore con feste e ricevimenti, soprattutto con l’ultimo degli eredi Carafa, Nicola Maria; seguirono, poi, periodi peggiori con un totale abbandono, fino a quando, nel 1902, ristrutturato, venne adibito a condominio, con inquilini soltanto sul davanti, mentre il retro è disabitato.
Palazzo Donn’Anna, però, resta famoso anche per le tante leggendarie storie che gli sono state attribuite e tramandate dalla popolazione fino ai giorni nostri; una delle quali è che, per anni, si è creduto che Donn’Anna fosse la regina Giovanna I, che prima ospitava, nottetempo, nel palazzo i suoi amanti occasionali e, all’Alba, li faceva ammazzare gettandoli dal palazzo o li faceva uscire dall’accesso via mare e li faceva uccidere una volta raggiunto il largo.
Più inquietante (e forse veritiero) e quest’altro episodio (uno fra i tanti): a Napoli era nota la bellezza della viceregina Donn’Anna, altrettanto quanto la sua “infedeltà”; il suo amante era, infatti, il nobile Gaetano Casapenna o Gaetano di Casapesenna. Per un lungo periodo di tempo tutto fila liscio, fino a quando non arriva la nipote del marito, la spagnola Mercedes de las Torres, anche lei molto bella e che non era passata inosservata dal nobile amante della viceregina, tanto che tra i due nacque una relazione segreta.
Durante una rappresentazione che si teneva nel piccolo teatro del palazzo, Mercedes sosteneva la parte della “schiava Mirza, follemente innamorata del suo padrone”, il quale era impersonato nientepopodimeno che dal nobile Gaetano; tanto fedele e tanto innamorata da morire per lui, sulla scena, colpita da una pugnalata diretta al padrone da parte di un padre che voleva vendicare il torto fatto alla figlia.
Il nobile padrone “Gaetano” commosso da questo gesto amoroso, seppur teatrale, si chinò sul corpo morente della sua fedele schiava e, unitamente a parole accorate, coprì il suo volto e la sua bocca di baci frementi, impetuosi, focosi e di uno slancio tale che, agli occhi del pubblico, che si scatenò in un fragoroso applauso, sembrò una magnifica e magistrale interpretazione, ma agli occhi di Donn’Anna si svelò l’arcana tresca dei due, di cui aveva già sentore.
La viceregina, sentitasi tradita, la non più sola ammirata, corteggiata ed amata, spinta da una morbosa gelosia nei confronti della più giovane rivale, dopo una furibonda lite tra le due donne, della bella spagnola Mercedes, da un giorno all’altro, non si seppe più nulla; qualcuno fece circolare la voce che si fosse rinchiusa in un convento di monache di clausura, arsa da un desiderio che covava in cuore già da tempo, senza mai dire, però, quale fosse il convento e la località.
Il nobile Gaetano di Casapesenna la cercò in lungo e in largo, in Italia, in Francia, in Spagna, in Ungheria, pregò e supplicò molti santi perché gliela facessero ritrovare; fu tutto inutile. Morì ancora giovane in battaglia.
Per Donn’Anna la vita nel palazzo continuò; continuarono feste, festini e rappresentazioni teatrali, ma non ebbe migliore sorte della sua rivale; il suo cuore era amareggiato, arido e solitario ed assalita da tanti rimorsi, si ritirò nella sua casa natale di Portici, dove, di lì a poco, pose fine colpita da una terribile malattia a quarant’anni non ancora compiuti.
Si pensa, e lo si vuole fortemente ancora oggi, che le anime dei tre amanti, ma soprattutto quelle di Gaetano e Mercedes, si aggirino tormentate ancora dentro al palazzo
╠ La monumentale Rosebery o Villa Maria Pia, in stile neoclassico, fu costruita per una dimora reale nel famoso “Quartiere di Posillipo”; oggi è la residenza del Presidente della Reoubblica a Napoli – per questo motivo non è visitabile se non in alcuni momenti particolari e straordinari dell’anno (ultima visita, il 27 marzo 2010 in occasione dei festeggiamenti del 150° anniversario dell’Unità d’Italia).
La costruzione della villa, nel 1801, fu commissionata dall’ufficiale austriaco conte Giuseppe de Thurn (Della Torre), un brigadiere della flotta della Marina Borbonica a Napoli, quale semplice dimora di campagna per sé e per la sua famiglia, con una distesa enorme di frutteti e vigneti.
Tra le varie alternanze belliche tra francesi e spagnoli, l’originario proprietario, nel 1820, vendette questa sua proprietà partenopea a Donna Maria Antonia Oliva Grimaldi, principessa di Gerace, ed a suo figlio Agostino Serra di Oristano o di Terranova, che la trasformarono in una sontuosa ed elegante villa.
A distanza di pochi anni, però, fu nuovamente venduta e ad acquistarla fu Luigi di Borbone, principe di Borbone delle due Sicilie, all’epoca Comandante della Real Flotta Marina del Regno delle due Sicilie, il quale, in onore della moglie, la principessa brasiliana Gennara di Braganza – figlia dell’imperatore del Brasile Pietro I e sorella di Pietro II, il successivo imperatore brasiliano, la chiamò “Villa Brasiliana“.
In seguito al suo esilio in Francia, la villa fu acquista da un banchiere e benestante uomo d’affari francese Gustave Delahante, il quale, a sua volta, la vendette, nel 1897, al londinese Archibald Philip Primrose Quinto Conte di Rosebery, Primo Ministro del Regno Unito – della Regina Alexandrina Vittoria.
Nel 1909, però, per i grandi costi di mantenimento, la donò al governo del proprio Regno britannico; divenne, così, sede di rappresentanza e luogo di villeggiatura per gli ambasciatori ed uomini politici inglesi in Italia.
Nel 1932, il Regno Unito la concesse allo Stato Italiano, che la trasformò in residenza estiva dei reali di Savoia, ma soprattutto di Umberto II Conte di Savoia e Principe di Piemonte, nonché re d’Italia dal 9 maggio al 18 di giugno del 1946 (per questo fu chiamato il “Re di Maggio”), e della di lui moglie, la principessa Maria Josè del Belgio.
In questa Villa nacquero tre dei quattro figli: nel 1934 nacque la prima “Maria Pia” in onore della quale anche la Villa fu denominata “Maria Pia”.
Da qui partirono, nel 1946, per l’esilio in Egitto il re Vittorio Emanuele III , quando abdicò in favore del figlio Umberto II, e sua moglie la regina Elena.
Con l’arrivo degli Alleati a Napoli riprese il nome di Villa Rosebery e venne data in concessione all’Accademia dell’Aeronautica Italiana fino al 1957, anno in cui, con l’entrata in vigore di un’apposita legge, fu inclusa fra le residenze disponibili ed in dotazione al Capo dello Stato Italiano.