Napoli La chiesa di Sant’Antonio abate
La chiesa è piuttosto antica, anche se, nel corso dei secoli, con i restauri è stata di molto ammodernata; si trova all’inizio dell’omonimo borgo Sant’Antonio, mentre l’ingresso del tempio è in via Foria, nr. 302, quasi alla fine della strada, punto in cui incrocia Piazza Carlo III, di fronte al Real Albergo dei poveri.
La tradizione vuole che la chiesa sia sorta fondata per volontà della regina Giovanna I d’Angiò, ma da nessun documento storico rinvenuto ne fa cenno; anzi, un diploma (documento che comprova la concessione di un privilegio) del re Roberto d’Angiò attesta che, già nel marzo del 1313, esistevano sia la chiesa che l’ospedale.
A rafforzare questa prova è il fatto che all’ospedale venivano curati gli infermi affetti dal morbo detto del “fuoco sacro” o anche, come ancora oggi è noto, il “Fuoco di Sant’Antonio”, una malattia della pelle, l’odierno virus varicella- Zoster, che colpiva bambini ed adolescenti dai due ai quattordici anni.
Molto più attendibile è, invece, il fatto che gli originari edifici fossero stati realizzati tra la metà e la fine del 1200 e che la regina Giovanna I, grazie al finanziamento di somme destinate ad un programma di edilizia religiosa e assistenziale, da lei stessa elargito, verso il 1370, abbia voluto il loro ampliamento, soprattutto quello della Chiesa, allo scopo di contenere il grande flusso di fedeli, sempre più crescente, che si riversava nella vicina chiesa dedicata a Santa Brigida di Svezia, alla quale venivano attribuiti portentosi prodigi e miracolosi guarigioni.
Anche una gran quantità di ex voto, unitamente ad arredi e suppellettili sacri, furono trasferiti nei nuovi locali dell’ampliata chiesa di Sant’Antonio abate; forse, ma con tanti dubbi per mancanza di atti storici, la regina Giovanna abbia potuto disporre per la costruzione dell’ospedale e, ancora forse, del convento (oggi, le stanze del convento sono occupate da numerose famiglie napoletane sfrattate), perché in quel luogo era ubicato una sorta di lazzaretto, presso cui venivano ospitati ammalati di ogni genere, oltre a quelli affetti dal morbo del “Fuoco di Sant’Antonio”, verso i quali si prodigavano i monaci antoniani, che si spostavano dalla vicina chiesa al lazzaretto per prestare la loro opera assistenziale ed infermieristica: da qui la necessità di costruire l’ospedale ed il convento. Ne corso dei secoli l’intero complesso ha subito modificazioni durante i restauri, soprattutto ad opera del cardinale Antonino Sersale, arcivescovo di Napoli.
– Curiosità e leggenda –
Sant’Antonio abate era molto noto perché era ed è il patrono dei macellai, dei salumieri, dei contadini, degli allevatori, nonché il protettore degli animali domestici e, soprattutto, amico dei maialini, tanto che, quasi sempre, viene effigiato con accanto un maiale con al collo una campanella.
A Napoli, come in gran parte del meridione d’Italia, Sant’Antonio Abate è eccezionalmente chiamato “Sant’Antuono” per distinguerlo da Sant’Antonio da Padova.
Il 17 gennaio, secondo la tradizione, la Chiesa benedice le stalle e gli animali in esse contenuti, invocando la protezione del santo; e, sempre secondo la tradizione, ogni anno il 17 gennaio vi sono i festeggiamenti di “Sant’Antuono” , celebrato con roghi ardenti, accesi dopo un segnale dato con l’accensione di tre fuochi d’artificio; per i roghi viene utilizzata legna che proviene soprattutto da mobili vecchi, ma va bene anche altro tipo di legna purché faccia una bella vampata.
Durante i festeggiamenti si mangiano salsicce e si beve vino rosso, ballando intorno al fuoco; il rituale è di buon augurio per l’anno nuovo da poco iniziato e un detto napoletano dice: “Chi festeggia Sant’Antuono, tutto l’anno ‘o pass’ bbuon” = “Chi festeggia Sant’Antuono, tutto l’anno lo trascorre bene!”.
I monaci antoniani, che prestavano assistenza ospedaliera, preparavano la sacra tintura, un unguento ricavato dal grasso del maiale, che veniva usata per curare l’herpes zoster (questo è il nome scientifico del “fuoco di Sant’Antonio”); tra il popolino napoletano si estese, così, la voglia e l’abitudine di allevare maialini per donarli al monastero.
L’ordine dei frati antoniani fu bandito, poi, dagli Aragonesi, agli albori del 1400, perché ritenevano questi monaci simpatizzavano troppo con i loro protettori francesi, gli Angioini.
Nonostante tutto, l’usanza dell’allevamento dei maialini o della loro donazione da parte del popolo, andò avanti fino al 1665, allorquando, un episodio del tutto buffo e ridicolo accaduto durante una processione, fece dichiarare illegale l’allevamento dei maiali presso la popolazione e presso i monaci: un maialino si intrufolò tra le gambe del vescovo facendolo infuriare in modo assurdo ed inverosimile.