Napoli Complesso di San Giovanni a Carbonara

Il complesso, situato nella via omonima al nr. civico 5,  comprende, oltre alla chiesa maggiore dedicata a San Giovanni,  una chiesa inferiore, o della Consolazione a Carbonara, del 1700, ai piedi della meravigliosa scalinata in piperno a doppia rampa, opera dell’architetto Ferdinando Sanfelice (che, risolse, così, anche il problema del dislivello che, dalla strada, creava grande difficoltà per  giungere ai diversi ingressi dell’edificio)  e l’antico convento dei frati  Agostiniani.

Per la realizzazione del complesso tutto comincia nell’anno 1343, quando un patrizio napoletano Gualtiero Galeota, nel 1339, fece una donazione a frà Giovanni d’Alessandro, abate dei frati Agostiniani, già in possesso di un piccolo romitorio (il luogo dove dimorava un eremita), di un orto e di alcune case, situate  fuori dalle mura della città, definito ad carbonetum, con palese attinenza al fatto che era un luogo in cui venivano bruciati i rifiuti  raccolti all’interno delle mura urbane di Napoli, i cui resti bruciacchiati ed i liquami erano trascinati verso il mare dalle acque che provenivano dalle colline delle zone poste più a nord della Sanità e di Capodimonte. Gli agostiniani ampliarono il romitorio costruendovi il loro convento, dedicato a San Giovanni, venerato come protettore dalla famiglia Galeota, proprio a ridosso delle mura.

Successivamente, il predetto benefattore, si prodigò in un’altra donazione di altri due giardini, grazie ai quali frà Dionigi fece realizzare la chiesa ed un nuovo convento,  incorporando, di lì a poco, anche due torri e quella precedente parte del muro di cinta, su progetto di Masuccio II e realizzazione del napoletano Giovanni Angelo Criscuolo.

Agli inizi del 1400, il re di Napoli Ladislao I, detto il Magnanimo, o Ladislao d’Angiò-Durazzo o Ladislao di Durazzo, fece ampliare la struttura con la costruzione di un nuovo chiostro a fianco di quello già esistente e abbellendo la chiesa con meravigliose opere  scultoree.

Alle spalle dell’altare maggiore è posto il suo grandioso monumento funebre, del 1414,  capolavoro di artisti toscani sotto la ingegnosa direzione dell’architetto e scultore Andrea da Firenze (o Andrea d’Onofrio o da Nofri, ma al secolo Andrea Ciccione). E’ alto 18 metri, sostenuto da quattro cariatidi che simboleggiano le quattro virtù  (Temperanza, Fortezza, Prudenza e Magnanimità); sulla parte di sopra sono state collocate le statue di re Ladislao e di Giovanna II d’Angiò, sua sorella, assisa in trono; mentre, nella parte inferiore, vi è l’accesso per la Cappella Caracciolo Del Sole, che fu edificata, nel 1427, per volontà di Sergianni Caracciolo. Ha una forma circolare, con uno splendido pavimento di maioliche del quattrocento, come pure gli affreschi di Perrinetto da Benevento (pittore campano non tanto noto)  e di Leonardo da Besozzo (comune in prov. di Varese). Sul fondo della cappella, il sepolcro di Sergianni Caracciolo, altro capolavoro di  Andrea da Firenze; Sergianni era il  gran siniscalco presso la Corte del re, titolo che veniva attribuito ad alti dignitari con l’incarico di amministrare la giustizia e del comando militare; era soprannominato  “il re senza titolo” proprio per gran potere ed autorità che aveva, tanto da suscitare l’invidia dei tanti nobili che aspiravano a tale carica; era anche l’amante della regina Giovanna II, succeduta al fratello Ladislao. Donna Covella Ruffo, duchessa di Sessa e cugina della regina, fu la sua peggior nemica; di rigidi costumi e di indole irruente, mal vedeva la tresca d’amore tra lui e la cugina, tanto che, accecata dall’odio, escogitò come metterlo in cattiva luce con la sovrana,  facendole credere che il matrimonio del figlio di Sergianni con Maria, la figlia del generale del re Giacomo Caldora, avvenuto il 17 agosto 1432, avrebbe ingigantito ancor di più i suoi già potenti poteri e titoli, tanto da indurlo ad usurpare anche l’autorità regia.

Morì, così, pugnalato a tradimento, vittima di una congiura di nobili a Castel Capuano nella notte del 19 agosto 1432, complice la stessa regina, che placò la sua rabbia soltanto  quando confiscò  tutti i beni alla moglie del suo ex amante Caterina Filangieri, contessa di Avellino, e imprigionando persino  il figlio Troiano Caracciolo, il quale fu liberato dopo alcuni giorni essendo stato pagato, come riscatto, l’immenso tesoro che Sergianni aveva accumulato a Melfi e con la confisca di tutti i beni e di altri feudi a Caterina.

Sergianni, sul sarcofago, costruito per volere del figlio Troiano, è riprodotto con un pugnale nella testa.

Non temono il confronto né per le sculture marmoree, né per gli affreschi e né per l’imponenza gli altri monumenti funebri e le altre Cappelle, come quella : dei Caracciolo di Vico, costruita tra il 1499 ed 1516 da un artista ignoto del  settentrione, conoscitore dello stile del Bramante e del fiorentino Giuliano da Sangallo, e quella dei Miroballo, con la sua pregiata e vasta decorazione scultorea, opera dello scultore lombardo Jacopo della Pila, del comasco Tommaso Malvito, e del pittore / scultore milanese Francesco da Milano (al secolo Francesco Pagani). Ammirabili sono anche i monumenti dei sepolcri dei Caracciolo, opere di Giovanni Domenico D’Auria e Annibale Caccavello.