Napoli Basilica e Monastero di Santa Chiara

Il complesso fu costruito tra il 1310 e il 1340, sulle rovine di terme romane risalenti al I secolo d.C., per volontà di Roberto d’Angiò, detto il saggio, e della di lui moglie Sacia o Sancha d’Aragona (figlia del re di Majorca Giacomo II, seconda moglie del re di Napoli Roberto d’Angiò, sposato nel 1304; costretta, alla morte del marito ad abbandonare il palazzo di corte, si ritirò nel monastero di Santa Maria della Croce, prese i voti e divenne suor Chiara – alla sua morte, 28 luglio 1345, fu tumulata nella chiesa del monastero – nel 1424 fu trasportata nella Chiesa di Santa Chiara, da dove, purtroppo, i suoi resti mortali sono andati persi. Si dedicò e patrocinò la costruzione anche di altri conventi e chiese di Napoli: Santa Maria Maddalena, Santa Maria Egiziaca, Santa Croce di Palazzo, Certosa di San Martino, ed anche in Provenza ed in Terra Santa).

Fu la più grande basilica gotica della città di Napoli, ma da una sua ristrutturazione, tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, assunse uno stile barocco per mano di Domenico Antonio Vaccaro, architetto, scultore e pittore napoletano.

E’ lunga circa 130 mt., alta 45 mt. e larga 40 mt.; oggi si presenta con una sola navata con dieci cappelle sui due lati, nelle quali sono stati realizzati monumenti sepolcrali che sono appartenuti a famiglie nobili napoletane. All’ingresso a sinistra troviamo anche la tomba del nostro eroe Salvo D’Acquisto; nella nona cappella, sempre a sinistra, ci sono le tombe dei Borbone, in cui riposano i resti mortali dei Re delle Due Sicilie, da Ferdinando I a Francesco II.  Nel coro dietro l’altare maggiore, alto quindici metri, è ben conservato l’Arcosolio del Re Roberto: cioè una nicchia travalicata da un arco ed incassata nella parete contenente la sua tomba: è il più sfarzoso e ricco sepolcro marmoreo che si conosca, decorato di pitture ed ornamenti di marmo dorato, di mosaici e di statuette di Santi. L’opera è dei fratelli Giovanni e Pacio Bertini, scultori fiorentini; alle pareti, ben visibili i resti di affreschi di Giotto, il quale propose  “Episodi dell’Apocalisse” e “Storie del Vecchio e Nuovo testamento”, un tesoro andato perso per il gesto criminale ed ignorante del presuntuoso governatore spagnolo viceré di Napoli Bernardino Barrionuevo, che, nel corso del 1500,  fece eliminare o coprire da altre pitture tutti gli affreschi esistenti.

Di essi rimangono solo alcuni frammenti ed una madonnina sopra un altare a sinistra.

All’epoca, Santa Chiara a Napoli era il più grande tempio cristiano di tutta l’Italia, rimarcando questo il vero stile lombardo; ma i restauri e le manutenzioni succedutosi nel corso degli anni, hanno portato ad una decisa trasformazione dello stile originario.

Il 4 agosto 1943 (seconda guerra mondiale) un massiccio bombardamento delle forze alleate provocò un incendio che durò per circa due giorni, causando danni ingentissimi sia alla chiesa che al complesso monastico. Nel 1945, per non dimenticare quanto accaduto, fu scritta una bellissima canzone in dialetto napoletano  “MUNASTERIO ‘E SANTA CHIARA”, con versi di Michele Galdieri e musica del maestro Alberto Barberis.

I lavori di ricostruzione della Basilica cominciarono nel 1944, sotto la guida e partecipazione diretta di  Padre Gaudenzio Dell’Aja,  nominato Rappresentante dell’Ordine dei Frati Minori dei lavori, che si conclusero nel 1953.

L’annesso Chiostro delle Clarisse ha qualcosa di veramente straordinario soprattutto con il suo giardino tappezzato da Riggiole maiolicate” – mattonelle di maiolica- su cui sono  raffigurati paesaggi, scene campestre e mitologiche e quant’altro. Altri due chiostri minori completano il complesso monastico: quello dei “Frati minori” e quello “dei Servizi”.

CURIOSITA’ : “il Mistero della nobildonna che fa miracoli d’amore” - articolo di Marco Liguori de “il Corriere del Mezzogiorno 24/4/2005” sulla pagina  “Brigantino – Il portale del Sud” -:

“Amor sacro e amor profano convivono perfettamente nella basilica di Santa Chiara. E’ un piccolo miracolo, che un visitatore può scoprire entrando nella quarta cappella posta sulla destra della grande navata della splendida chiesa gotica trecentesca. Qui è collocato il monumento funebre di una nobildonna la cui identità è tuttora sconosciuta: l’opera è costituita da un sarcofago in marmo, sul cui coperchio è raffigurata l’immagine della defunta, distesa e avvolta in un semplice abito monacale, con il suo drappeggio in evidenza: in basso, sono stati scolpiti in rilievo una Madonna con in braccio il Bambino Gesù e uno stemma, raffigurante un leone rampante e sei torri. Il suo aspetto è giovanile, con un dolce viso ovale dall’espressione serena: sembra immersa nel sonno del giusto. Proprio questa misteriosa e leggiadra figura femminile, dalle fattezze delicate e dall’austero abito monacale, ha ispirato la fantasia dei ragazzi e delle ragazze del liceo ginnasio “Antonio Genovesi” e dell’istituto magistrale “Eleonora Pimentel Fonseca”, due scuole situate nelle immediate vicinanze di Santa Chiara. Fantasia che ha portato ad eleggere la nobildonna come una vera e propria “dea” dell’amore: questo singolarità è testimoniata dalle numerosissime scritte incise sul coperchio del sarcofago e sul muro ad esso adiacente. Una pratica che infastidirà i benpensanti: d’accordo, non bisogna sporcare i monumenti, ma la natura spontanea di queste incisioni per una volta non farà gridare allo scandalo.
Il visitatore potrà leggervi frasi sincere, piene a volte di struggente sentimento, che testimoniano la “devozione” verso la donna sconosciuta, con richieste di tante “grazie” di natura amorosa. Ad esempio c’è Sandra che supplica: “Fammi incontrare l’amore dei miei sogni”. E poi c’è Palmina che invoca: “Fa’ che non mi lasci mai con il mio Alfonso”. Una ragazza, probabilmente costretta dall’ostinata indifferenza della persona oggetto del suo amore, si rivolge alla nobildonna per una richiesta quasi disperata: “Fa’ che al più presto possa fidanzarmi con Massimo”. La mano dell’adolescente ha posto anche la data del suo appello: 9/3/1990. Ma c’è anche chi è tornato dopo tanti anni e ha lasciato un segno tangibile di ringraziamento per la “grazia ricevuta”. E’ il caso di Guido e Pina che hanno inciso un cuore con la data probabile del loro romantico incontro, 6/12/1970, e una incomprensibile frase di gratitudine per l’operato ultraterreno della dolce signora. A lei è rivolta l’invocazione di Pino, che desiderava ritornare ai primi momenti toccanti e romantici vissuti con la sua fidanzata, interrotti da un momento di appannamento e, forse, di divisione: “Fa’ che torni come prima per sempre”. Sotto questa scritta è stata posta un’altra, molto struggente: “Fa’ che si ricordi sempre di me, Maria”.
Ma non ci sono soltanto frasi di richieste per “grazie” nella sfera sentimentale. Alcune mani hanno inciso invocazioni per un esito felice degli studi, senza magari incorrere nell’esito dell’esame di riparazione estivo per uno o più materie, che una volta era il tormento degli studenti e delle loro famiglie. “Fa’ che sia promossa”, ha scritto una mano sconosciuta. Una certa Fortuna, il cui nome forse non le bastava per superare brillantemente gli scrutini del proprio istituto, ha inciso un’altra frase simile: “Ti prego, fa’ che io sia promossa”. Sul muro affiancato al sarcofago c’è un ragazzo di una non meglio precisata IV C, che ha esclamato: “Fa’ che io sia ammesso”.
A questo punto, il visitatore si chiederà: chi sarà questa donna eletta a “santa” protettrice dagli allievi delle due scuole? «Sicuramente la defunta non è una suora – spiega il professore Francesco Aceto, docente di storia dell’arte medioevale presso la facoltà di lettere e filosofia dell’Università Federico II di Napoli – ma è una nobildonna laica che ha voluto essere seppellita con un abito da clarissa. Questo perché sul sarcofago è inciso anche due volte uno stemma partito, ossia quello del marito: vi sono incise teste di ariete stilizzate, appartenenti alla nobile famiglia degli Artus, conti di Sant’Agata dei Goti e di Monte de Risi. Purtroppo l’altro stemma, quello del leone rampante, era molto diffuso nel medioevo e risulta molto arduo risalire all’identità del casato: gli stessi Artus erano imparentati con più famiglie aventi nel proprio stemma un leone rampante». Nonostante le numerose difficoltà, il professore Aceto ha una sua ipotesi ben definita. «Ritengo che la nobildonna sepolta – prosegue il docente di storia dell’arte medioevale – possa essere Andrea Acciaiuoli d’Artus: non inganni il nome maschile, poiché Andrea era un nome dato all’epoca anche alle donne. Era la sorella del gran siniscalco del Regno di Napoli, Nicolò Acciaiuoli, sotto la dominazione Angioina. Purtroppo non si può risalire alla data di morte precisa della nobildonna: è singolare che sul sarcofago non vi sia stata apposta, assieme al suo nome». Secondo le cronache dell’epoca Andrea Acciaiuoli era una donna bellissima, cui Giovanni Boccaccio dedicò la sua opera “De claris mulieribus”. «A giudicare dallo stile iconografico del monumento funerario – descrive il professore Aceto – sono orientato per una data più antica della sua fattura rispetto a quella del 1360 ipotizzata da diversi studiosi: forse la si può collocare attorno al 1340. Di sicuro non è opera del cosiddetto “Maestro Durazzesco”, che fabbricò il monumento di Maria di Durazzo sempre a Santa Chiara.        Probabilmente è un artista che muove dalle esperienze di Tino di Camaino, dallo stile molto curato e ricercato: ma anche per lui non è possibile risalire all’identità certa». Insomma, restano un mistero sia il nome della nobildonna defunta, sia quello del maestro che realizzò il suo sepolcro. Una cosa resta certa di questa storia: il “pellegrinaggio” di tanti giovani che chiedono alla giovane di avere finalmente l’amore della propria vita e l’attribuzione di una qualità ultraterrena a un personaggio laico, ma che si intreccia perfettamente con la sacralità della basilica di Santa Chiara. E resta anche un’invocazione: «Andrè, facce ‘sta grazia!». “